Enrico Benassi
Presentazioni

"Luisa Pagano pittrice naif "





Testo tratto dalla rivista “L’ARTE NAIVE” n° 6 del giugno 1975, per gentile concessione del direttore Dino Menozzi.

PROFILI E MONOGRAFIE DI ARTISTI

“LUISA PAGANO“

Luisa Pagano compirà fra qualche mese gli ottant’anni , essendo nata a Voghera il 19.9.1895. Eppure questo dato anagrafico è del tutto insignificante, perché la sua più recente produzione conserva tuttora la freschezza di quando, circa trent’anni fa, iniziò a dipingere. Fenomeni simili non sono infrequenti nell’ambito dell’area naive (Grandma Moses, Nathalie Schmidtova, Asilia Guillèn, Maria Andruszkiewicz, tanto per fare qualche nome). La nascita della Pagano come pittrice ha senza dubbio una motivazione di carattere psichico: nata e votata per la lirica divenne ben presto una apprezzata soprano. Poi, quasi improvvisamente, negli anni quaranta una malattia alle corde vocali la costrinse ad abbandonare il canto e da Milano, sua città di elezione, si ritirò nella natia Voghera . L’inopinata recisione di quella sorta di cordone ombelicale che la teneva legata al mondo del teatro lirico ebbe sicuramente un effetto traumatizzante, nel senso che essa fu costretta a darsi una diversa ragione esistenziale. Fu così che, riprendendo qualche tentativo degli anni addietro, si avvicinò al mondo della pittura. Direi quindi che il caso della Pagano è una riprova concreta di quella “teoria dei blocchi” delineata dal critico Grgo Gamulin, il cui pensiero è stato sintetizzato ne precedente numero di questa Rivista. Sotto il profilo storico-critico taluni esperti hanno avanzato, chi in misura maggiore e chi in misura minore, riserve sull’appartenenza della pittrice all’area naive (per esempio Gianluigi Falabrino, Aurelio Natali,Arsen Pohribny, Pier Angelo Soldini) . A mio avviso tali riserve non hanno alcuna ragione d’essere e tale convincimento trova l’avallo, altrettanto autorevole, di critici come Alfredo Mezio, “scopritore” della Pagano, Raffaele De Garda, Anatole Jakovsky, Lorenza Trucchi, Marco Valsecchi, ecc. Altri si sono assunti il compito di confutare le molteplici tesi di coloro che mettono in forse la naivetè della Pagano, per cui mi limiterò ad alcune brevi considerazioni. In via generale il denominatore comune di tali tesi si identifica nel fatto che la pittura della Pagano, da un lato, presenterebbe delle semplificazioni formali e quin di una carenza di preoccupazioni descrittive, tipiche dei naifs, dall’altro, evidenzierebbe accostamenti tali da ricordare artisti dell’area “colta”. Senonchè questa visione, forse limitata ad un formale raffronto tipologico, non è, a mio avviso, risolutiva al fine di escludere o confinare la Pagano all’estremo limite dell’area naive. Invero, ai fini considerati, l’elemento individualizzante è la conoscenza o meno di quelle pregresse esperienze pittoriche e l’intenzionalità consapevole o meno di volerle ripercorrere. Lo stesso Gamulin, nel riconoscere che, all’interno dell’area in questione, è possibile la coesistenza del naturalismo narrativo con l’astrattismo, dell’espressionismo con il surrealismo, finisce giustamente con l’ammettere che il distinguo non può essere che quello sopra delineato. Del resto se non si accedesse a tale tesi, finiremmo per escludere dall’area anche altri Autori, che vi sono invece inclusi per riconoscimento pressocchè unanime della critica. Tanto per fare qualche esempio Pohribny rinviene nella Andruszkiewcz elementi tipici dell’espressionismo del “gruppo Brucke”, Jakovsky in Verzelloni elementi comuni al surrealismo: costoro, tuttavia, annoverano entrambi i pittori fra i primitivi e i naifs per le ragioni già dette. Ragioni che si riscontrano anche nella Pagano: essa, è vero, possiede una certa cultura generale, ma non ha mai studiato pittura anche a livello di autodidatta, così come non ha mai frequentato ambienti artistici che le consentissero un dialogo ideale con i “Maestri” del passato; ma, soprattutto, non vi è mai stata in lei la consapevolezza e l’intenzionalità di ricalcare, in progressione di tentativi, altrui esperienze pittoriche; anzi, a questo riguardo, possiamo dire che la sua produzione ultratrentennale è rimasta sostanzialmente identica; cioè è nata e si è sviluppata in un clima di completo, isolamento senza subire gli influssi e le metamorfosi evolutive tipici della pittura colta. Ecco perché, in conclusione, sono fermamente convinto della profonda naivetè di Luisa Pagano.


WALTER CARLINO












Come punto di partenza per la nostra indagine tendente ad effettuare un bilancio critico della attività pittorica di Luisa Pagano, ci colleghiamo ad alcune affermazioni che Gianluigi Falabrino ha esposte in catalogo in occasione di una vasta antologica della pittrice, affermazioni che ci consentano di affrontare di petto la questione della legittimità o meno di considerare l’autrice nell’ambito dell’area naive. Scrive il Falabrino : “candida ma non primitiva, serena ma non ingenua, Luisa Pagano [...] presenta le opere dei suoi due filoni ricorrenti, le scene della vita provinciale e le fantasie di un paradiso terrestre [...] nelle une e nelle altre, sebbene la Pagano sia considerata appartenente al gruppo sempre più numeroso dei naifs, la pittrice - appunto vera artista - si dimostra solo parzialmente naive”. Una prima considerazione che riveste, crediamo, una considerevole importanza, ci spinge a dissociare le nostre convinzioni da quelle del Falabrino allorchè tende esplicitamente ad utilizzare l’ormai inattuale criterio di ritenere un pittore autodidatta appartenente ai naifs, in ragione inversamente proporzionale al valore artistico. La Pagano dunque, “appunto in quanto vera artista” si dimostrerebbe solo parzialmente neive. Mentre siamo ovviamente d’accordo sul primo termine, l’artisticità delle opere, non ci sentiamo di condividere la conclusione di ritenerla solo parzialmente ( e con formula dubitativa) inseribile nell’are naive. Non vorremmo che questo rifugiarsi in un “troppo brava per essere naive” costituisse uno sconsolante e conformistico pretesto per eludere non tanto una eventuale difficoltà di collocazione critica, quanto una precisa presa di posizione nei confronti della problematica naive. D’accordo, a questo proposito occorrerebbe intenderci sul significato, preciso ed incontrovertibile, di naif, sul concetto di area naive: in ordine a questi problemi e quesiti pensiamo di esserci più volte pronunziati con sufficiente chiarezza e senza equivoci (e rimandiamo i lettori ai nostri precedenti scritti) nel sostenere un netto ripudio di una naivetè intesa come movimento o tendenza, come scelta programmata e intenzionale, scaltra e consapevole, come fenomeno riducibile ad una standardizzata iconografia stilistica e ad una mentalità operativa che si avvalga di finto candore e sospetta ingenuità. A sostegno della sua tesi il Falabrino cita Aurelio Natali, il quale afferma che la Pagano può essere “…collocata all’estremo limite dell’area naive” per “la complessità della visione” e per “ la necessaria riflessione culturale richiesta”. Anche a questo proposito manifestiamo la nostra perplessità e ribadiamo che una cultura generale ( e non specificatamente pittorica ) non preclude la possibilità di esistenza di manifestazioni candide e sincere ( più o meno eleganti e “raffinate”, più o meno complesse in dipendenza appunto del retroterra culturale - insistiamo di carattere generale e non specifico - dal quale scaturiscono) .
Analoga perplessità permane in noi allorchè il Falabrino asserisce che “ alla sorprendente giovinezza e sensibilità e al candore della fantasia si mescolano lampi di una non spenta malizia, le intuizioni di una cultura pittorica che non è soltanto istintiva, la capacità di dipingere in forme pure, tali da ricordare Marc e perfino da riecheggiare qualche nota del primo Kandisnsky “. Non vorremmo a questo punto che si scambiasse per “lampi di una non spenta malizia” ciò che altro non è che talento, originalità artistica, quel talento innato (e non quindi cultura pittorica acquisita) che le ha fatto istintivamente e caparbiamente respingere qualsiasi suggerimento esterno fornito da occasionali “consiglieri”; d’altra parte, numerosi altri esempi di autori autodidatti, pur sprovvisti di cultura generale, i quali hanno dimostrato di possedere le capacità di dipingere in forme pure ed essenziali, avvalorano la legittimità di una possibile compresenza di diversi modi e stili, nell’ambito dell’area naive, modi e stili che tuttavia trovano sorprendenti analogie (di fatto e non intenzionali) con quelli del versante colto e consapevole. Anche l’innegabile esistenza di due direttrici espressive (l’una tesa a manifestare aspetti consueti della vita quotidiana, scorci di vie, piazze, campagne, il “microcosmo fitto di episodi di vita e di costume pungenti e precisi”, l’altra volta alla estrinsecazione di un interiore e vagheggiato anelito per un esistenza di sogno, per una visione di un mondo perfetto, anche se non privo di densità fisica, ma purtuttavia idealizzato) ci pare armonizzata e composta dalla unitarietà della struttura, dello stile, ma anche dalla fondamentale unitarietà della personalità dell’artista che fanno sì che i due filoni possano essere considerati complementari ed integrantisi a vicenda. Così alcune scene di vita provinciale, a volte così concrete e dettagliate, attraverso le strutture formali con le quali sono realizzate e risolte, riescono a trascendere il carattere meramente descrittivo di tanta pittura pseudo-naive, di deteriore tendenza, e a recuperare quel senso di serena immaterialità e di distacco proprio del simbolo. D’altro canto, composizioni più scarne ed essenziali, quasi rarefatte, conservano tonalità e colori dolci e distesi di una natura idealizzata, ma che resta pur sempre natura. Forse non siamo troppo lontani dal nucleo primigenio della sua ispirazione: una visione della vita filtrata da una calda, umana partecipazione, da una personalità nella quale spiccano doti di gentilezza, di spontaneità e candore; nella percezione di questo universo non ci soccorrono tanto le parole, i nobili intendimenti, della stessa pittrice: “dipingo per non essere sola”. Perché noi possiamo agevolmente percepire, sintonizzandoci sulla medesima lunghezza d’onda, e comprendere, dalle opere stesse come questa visione così magicamente conservata e recuperata al tempo stesso sia così ricca di significati. Per questi motivi, con intima soddisfazione, ci associamo a Monteverdi quando scrive: “...nel suo atteggiamento, che non è per nulla voluto, e che non falsa affatto una posizione della coscienza, il sapore di tutto ciò che è candido, innocente, mantiene un assoluto predominio e le permetta di conferire alla sua narrazione pittorica un sereno incanto poetico”. A conclusione vogliamo richiamare l’attenzione su un altro aspetto significativo e pregnante della sua arte: Luisa Pagano impreziosisce spontaneamente la sua pittura di valori, oseremmo dire squisitamente musicali, in virtù della sua educazione specifica. Le sue opere, spesso caratterizzate da ampie campiture, da ritmi larghi, dalle delicate scansioni cromatiche, a volte rifulgono di una luce improvvisa la quale, come una nota tenuta, arricchisce la musicalità di fondo, mentre linee curve e sinuose, a guisa di melodia, sostengono la composizione e si allargano in armoniche cadenze. Ecco un motivo in più per additare agli attenti estimatori della autentica naivetè l’opera della Pagano, indiscutibilmente una sensibile artista, originale ed ispirata.

DINO MENOZZI






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