Il vero naif padano padano C.E. - di Renzo Margonari
Si è parlato anche troppo della rivalità tra Antonio Ligabue e Bruno Rovesti. In realtà i due ex scarriolanti erano in buoni rapporti e la loro ruvida tolleranza reciproca non consisteva solo nell’essere protagonisti sullo stesso territorio, ma era una guardinga amicizia. Erano personalità stravaganti e soggettive, assai differenti, anche se la piccola platea paesana agitava volutamente una presunta concorrenza, originando una folta anedottica poi riferita a braccio. Ligabue non era un naif, e lo sapeva, mentre Rovesti lo era senza saperlo. Nessun vero naif sa di esserlo.
Bruno Rovesti (Gualtieri, 1907-1987), malaticcio, sparagnino e malignetto di carattere, scriveva particolareggiate relazioni sul verso dei suoi dipinti perché reputava che gli altri non comprendessero ciò che aveva dipinto e anche per precisare che quanto descriveva nel quadro era esattamente come lo aveva visto e fedelmente ritratto al vero. La “brutta copia” direttamente scritta sul retro del supporto, poi ripetuta con qualche miglioria anche calligrafica in “bella copia” su foglietti che incollava sulla “brutta”. Anche lui, dunque, come dichiara nel suo Avuto-Ritratto (sic), 1950, è uno scrittore e scrive Peschatori in Palude Marina, 1965, come faceva Ghizzardi: Zavattini se n’era accorto. Per essere certo della considerazione pubblica, firmava “Rovesti Bruno Pittore Contadino C.E.”, con qualche variante, che significava, maiuscole incluse, Celebre Europeo. Più tardi aggiunse “e mondiale”. “Perquindi” -diceva- i conterranei si rendessero conto della sua grandezza. Anche lui, come Toni, aveva ottenuto il primo successo partecipando al Premio Suzzara; anche lui era stato sostenuto da Marino Mazzacurati con una mostra personale a Roma nel 1949. Subito raccolse testimonianze illustri: Raffaele Carrieri, Cesare Zavattini, Giorgio Kaisserlian, Anatole Jakowsky, Orio Vergani, Nevio Jori. Quando espose a Milano, 1951, Leonardo Borgese che aveva parlato malissimo del Doganiere Rousseau guadagnando gli insulti dei giovani artisti milanesi, lo trattò rispettosamente sul “Corriere della Sera”. Rovesti, diversamente da Ligabue che regalava spesso o dava in cambio di poco, dichiarava prezzi folli “trattabili”. Eppure, il Toni è nella “Garzantina” (1986, p. 472) definito sbrigativamente -sei righe erronee- il più noto tra i naif italiani, mentre Bruno non c’è.
Quasi quarantenne, Rovesti, raccattando a terra una banconota da 50 lire -cifra inaudita per lui- decide di comprare dei colori, la storia è ben nota. Egli stesso se ne meraviglia, ma esegue istintivamente senza la minima esitazione, totalmente ignaro del mestiere (inizialmente diluisce i colori con l’olio da tavola). Nonostante ciò, incise anche parecchie acqueforti e puntesecche e quando scoprì che poteva ottenere colori più brillanti con la tempera in tubetti, adottò quel mezzo felicemente. Allora, fece anche bellissimi fogli disegnati a penna che stanno tra le sue prove migliori e pure certe tempere en grisaille, vantando, alquanto giustamente, di essere l’unico e vero naif in grado di fare cose simili, cose che “positivamente” Ligabue non sapeva fare e mai fece. Ligabue, infatti, era un visionario, lui un realista. Teneva molto a far pesare che la sua fatica nel dipingere equivaleva al lavoro di un contadino nei campi. Anzi -diceva- “quando lavoravo la terra, mi stancavo meno”. Un giorno lo trovai arrabbiatissimo perché la bomboletta del fissativo per tempera produceva colature. Gli dissi di stare più distante dalla superficie senza sovrapporre, ma “positivamente” il consiglio non gli piacque poiché in quel modo consumava troppo materiale. Nel 1961, prelevandomi da casa, mi chiese di accompagnarlo alla mostra di Mantegna e “speriamo che ci sia perché voglio fare due chiacchiere con lui, chl’am piès”. Ricevere denaro in cambio dei suoi lavori lo rendeva certo della propria grandezza. “Perquindi” dipingeva tanti quadretti di fiori per poterli vendere a prezzi bassi. Quelli grandi li riservava ai più facoltosi. Rovesti rischia di essere dimenticato, travolto prima dalla moda alluvionale dei naif avventizi e congiunturali che lo “sfalsavano”, poi accantonato dal silenzio critico calato sulla sua opera, peraltro folta.
Bruno aveva seguito da volontario la follia belligerante di Mussolini, per una ripicca. Nel suo ego smisurato, si riteneva vilipeso dall’essere stato scartato alla visita di leva. Fu ferito e dichiarato invalido. Alla fine della guerra aveva tenuto i calzoni grigioverdi alla zuava ed estendendo il braccio fuori dal tabarro, continuò a salutare fascista, poi accorciò l’ostensione e infine lo fecero smettere. Assicurandosi preventivamente che non fossi comunista, mi confidò che gli ex partigiani -“quei delinquenti”- inscenarono una finta fucilazione, eseguita per due volte, mettendolo al muro sotto casa. La sua biografia nota non dice queste cose. Non c’entrano con l’arte, o forse sì? Non era una persona simpatica. Polemicissimo, e neppure tragicamente indifeso come Toni, ma è indubbio che sia stato l’antesignano esemplare di un certo formulario iconografico diffuso nella pittura naifista, derivato dal suo stile inconfondibile. Tutto incluso, Rovesti resta come un gran poeta dei campi.
È opportuna, dunque, e in un certo senso espiatoria per il lungo periodo di oscuramento, la mostra che gli riserva la sua Gualtieri con la Fondazione Antonio Ligabue -chissà che ne penserebbero i due attori del fatto- in Palazzo Bentivoglio, dal 3 settembre al 13 novembre. Curata dal bravo e attento Sandro Parmiggiani, la mostra consiste in una settantina di opere ben rappresentative. È la più nobile delle rassegne riservate all’opera rovestiana fino a ora, ben degna a incoraggiare il sensato recupero critico di un pittore senz’altro notevole, così come il catalogo (Skira) è la prima vera monografia, puntuale e accurata, dedicata all’artista.
Se proprio si volesse criticamente circoscrivere un modo tipico nell’immaginario dei naif padani, si costaterebbe facilmente che l’esempio caratteristico si riconduce a Bruno Rovesti. Non è un neoprimitivo e neppure da includere nell’Art Brut. Si potrebbe dire che è stato il più imitato, magari con ibridazioni furbesche delle sue caratteristiche intrecciandole a quelle dei cosiddetti naïfs croati. Sinili calcolati pasticci stilistici e di maniera cozzano con lo spontaneismo naifista. Quanto a rapportarsi con figure come Ligabue e Ghizzardi, penso che simili originalità non possano avere seguaci né imitatori, ma semmai solo dei falsificatori. Rovesti, invece, ha fatto scuola su scala europea, ma i suoi emuli non hanno il titolo di naif. Io quella gente lì non posso vederla, ma ce n’è una rete che è da spazzar via perché non hanno il sentimento spirituale che spinge di fare il quadro, allora fanno la sfalsazione... (voce registrata da Alfredo Gianolio). Tuttavia, se qualcuno riuscisse a fissare nell’interezza semantica il termine “naif” così com’è attribuita nella storia dell’arte, dovrebbe ammettere che almeno per quanto attiene all’ambiente italiano, l’unico cui potrebbe attribuirsi il termine appropriatamente è Bruno Rovesti, pittore contadino CE... e mondiale.
renzo@renzomargonari.it
tratto da: La nuova Cronaca di Mantova, del 09 settembre 2016, p.23
Per gentile concessione
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