"CAVETE COGAS, Attenti alle streghe" - Mostra itinerante che attraverserà la Sardegna per un intero anno
CAVETE COGAS
LE STREGHE IN MOSTRA
Passo dopo passo, la Mostra delle Cogas organizzata dalle due Associazioni culturali villacidresi, l’Organizzazione Divulgazione Arte con Arte e Ambiente e il patrocino di tutti i paesi ospitanti, procede per la sua meta.
Ogni volta che ci fermiamo, proponiamo le nostre òpere, svelando con esse i nostri pensieri, i nostri sentimenti, il nostro gusto del bello, le emozioni, che destiniamo a suscitare altri pensieri, altri sentimenti, altre emozioni in tutti quelli che esteticamente vorranno sentirli, appunto, attraverso i loro sensi, e che nei dipinti, nei disegni, nelle sculture riconosceranno, esternato e trasfigurato in una forma, almeno in parte, ciò che già dentro di sé conóscono. Il nostro è un viaggio che veramente non ha una meta reale, concreta, se non quella della bellezza, un viaggio che percorriamo con la nostra idea del bello senza mai còmpierlo. Oggi l’idea che ci muove è una finzione, un’immàgine della poesía che vogliamo in una sua particolare forma. La chiamiamo “coga”, strega, maga, fata, musa. Ogni artista ha la sua. Ma questa nostra coga non è una strega che fa paúra, che ci allontana o che vorremmo bruciare per raccapriccio, per indignazione. Non fa paúra perché è immersa nell’arte, nell’ironía dell’arte. Anche quando ha un aspetto orrendo o un nome terríbile: Lílit, Lamia, Bitia, Pitia, Sibilla, Eròfile, Pànfile, Fòtide, Ghellò, Mormò, Morra, Mendalza, Zefania, Ancroia e cosí via… è una nostra idea sull’Arte che è sempre dissimulazione, ironía, l’eruronéia, quella che faceva dire a Sòcrate di sapere di non sapere, ma solo per rivelare il suo intento di liberare tutti dai pròpri pregiudizi.
Ogni artista, anche oggi, con queste “forme” delle proprie “idee”, esprime la sua ironía su questo oggetto del suo peculiare interesse, sulle cogas, con queste sue nuove “invenzioni” della bellezza, soprattutto per poter ancora continuare a tentare d’inventare, illudèndosi di trovarla, quell’introvàbile terrena “forma della bellezza”.
“Il tempo di Lilit” (1) è il títolo del dipinto di Gisella Mura; “Sa coga súrbile”, La strega succhiatrice (15) è il títolo della scultura polimatèrica di Federico Coni; e “Lilith” (38) è il títolo della píccola scultura di bronzo di Graziella Piredda.
Lilit o Lilith è il nome della demoníaca abitatrice del giardino di Inanna, dea della guerra e dell’amore alla quale rubò, secondo il mito sumero, l’huluppu, l’àlbero del potere e dell’amore, come è scritto nel poema èpico babilonese, con caràtteri cuneiformi, in tavolette d’argilla, in cui si racconta dell’eroe Gilgamesh il quale lo sottrasse alla terríbile donna per restituirlo alla dea. L’epopea di Gilgamesh risale a 2.500 anni prima di Cristo ed è anche il libro dell’amicizia pura, in cui si racconta pure dell’amore inteso come amicizia schietta, come sentimento privo di secondi fini, illimitato. L’eroe, dopo l’uccisione da parte degli dei del suo amico Enkidu, viaggia nel mondo, come l’Ulisse omèrico, alla ricerca della conoscenza e dell’immortalità. Egli è solo nel mondo e, nella solitúdine che gli dà forza, rifiuta persino le effusioni della dea Ishtar che di lui s’innamora.
Lilit compare nel Talmud, il libro ebraico degl’insegnamenti e dei commenti del còdice delle leggi e delle règole dei rabbini, detto Mishnāh. In esso Lilit è indicata come prima moglie di Adamo, disubbidiente e ribelle, cacciata dal Paradiso terrestre e condannata a vívere come una creatura notturna succhiando il sangue dei bambini. È descritta con i capelli lunghi e con le ali. Vi è scritto: Chiunque dorma in una casa da solo, è preso da Lilit.
In Isaía (XXXIV, 14-16) si dice di Lilit, genio demoníaco femminile assiro –babilonese, che la notte abitava tra le rovine. Forse vi si ispira María Franca Tronci per il suo dipinto “Nella notte nera, dai rúderi sentírono civette e cogas” (34). Si dice che vi sarà “sangue d’agnelli e capri… un grande massacro nella terra di Edon (soprannome di Esaú, fratello di Giacobbe, detto appunto “il rosso” perché aveva venduto il suo figlio primogènito per un piatto di lenticchie rosse)” ridotta come pece e punita allo stesso modo di Sòdoma e Gomorra… “L’occuperanno il pellicano e il riccio. Lí abiteranno il gufo e il corvo… Nei suoi palazzi cresceranno le spine… ortiche e cardi…diventerà dimora di sciacalli, riparo per gli struzzi. Le fiere del deserto s’incontreranno con le iene e i sàtiri si chiameranno l’un l’altro; lí abiterà Lilit, trovando dove posarsi. Quivi si anniderà la vípera, deporrà le uova, le coverà, le farà schiúdere nell’ombra…”. Per quanto riguarda questo nome, Lilit, che in ebraico è NR ed è talvolta tradotto come TNM (caprimulgo), alcuni commentatori di Isaía sostèngono che, in raltà, índichi un “uccello notturno”. Talvolta Lilit è confusa con Lamia. Cosí è scritto nella Vulgata, nella traduzione latina: “E vi s’incontreranno demóni e onocentauri e i sàtiri grideranno l’uno all’altro; ivi s’accovaccerà la lamia e vi riposerà”. In un’altra versione della Vulgata: “S’incontreranno demóni e onocentauri e quelli pelosi si chiameranno l’un l’altro dove la lamia stazionerà e troverà per sé riposo”.
Nella tradizione della Cappadocia il nome di Lamia appare con riferimento al culto di Lilit (oscura madre) di cui, lei, è sacerdotessa.
“Lamia” (5) è il títolo del dipinto iperrealista di Màssimo Spiga dove dòmina una famèlica bocca di strega spalancata, con gengive, denti e labbra rappresentati meticolosamente, come ingranditi da uno specchio chirúrgico, in forma esasperata, efficace, terríbile; dentro, una bambina sogna a occhi aperti i bimbi nel loro girotondo come pupi di ritagli di carta, ma ha anche lei una appena suggerita coda di bestia; e la medésima strega potrebbe aver ispirato le òpere di Giorgio Masili, “Sa coga súrpile” (31), la strega-mosca che cerca di succhiare un sole nero con i raggi a occidente (il sinistro sole, símbolo di Belzebú che attrae e allontana le mosche), che diventerà la sua tràppola infernale, la sua intricata ragnatela, sovrastando un piano terràcqueo che minaccia con lingue di fuoco; e ancora potrebbe aver ispirato Mauro Podda per “La coga” (3) con un volto rugoso e grandi occhi che òccupa l’intera tela, un gatto bianco in primo piano con zampe-braccia e una lontana ala bianca, come una appena accennata fonte di luce.
Le “lamie” sono nominate, oltre che nel Libro di Isaía, nelle Lamentazioni (IV,3), poste tra i Libri profètici, in aggiunta al Libro di Geremía. Cosí è scritto: “Perfino gli sciacalli pòrgono la mammella e allàttano i loro píccoli, ma la figlia del mio pòpolo è divenuta crudele come gli struzzi del deserto…” Per la traduzione della Vulgata, a cura del monsignor Antonio Martini, la parola non corrisponde a “sciacalli”, ma a “lamie”.
Il primo a scrívere della strega “Lamia” fu indubbiamente Dúride di Samo, vissuto tra il IV e il III sècolo d.C., nella sua “Storia di Agàtocle” (frammento 17, II Libro). Ne scrive ancora Diodoro Sículo (I sec. a. C.) nel Libro XX della sua Storia, Cap. 41, in cui narra della spedizione di Agàtocle contro i Cartaginesi. La donna fu trovata da alcuni soldati dell’esèrcito romano in una profonda grotta, nel fondo di una voràgine. La sua figura era quella di un èssere mostruosamente brutto che catturava i bambini, la notte, e li uccideva dopo averne bevuto il sangue. Riprese il racconto di Dúride e ne approfondì ogni particolare. Lamia era stata, quando era una bellíssima giòvane, l’amante di Zeus che ebbe dal padre degli dei un figlio. Ma questo e tutti gli altri suoi figli vénnero fatti morire súbito dopo la nàscita da Hera, sorella e moglie di Zeus, per gelosía. Questa dea inoltre la rese cieca, impedèndole di dormire, ma Zeus le permise di potersi tògliere gli occhi, di poterli conservare in una sua segreta custodia e di poterli adoperare in ogni occorrenza. Per questa sua condanna e per questo suo grande dolore Lamia si vendicava uccidendo tutti i bambini che riusciva a rapire. Era figlia di Belo, sovrano d’Egitto, e fu regina di Libia. Cosí scrive di lei Eurípide, nel V sècolo a.C., autore greco di importanti tragedie, come Elettra, Ifigenia in Àulide, Ciclope, Medea (anche lei famosa crudele maga del mito intorno a Giasone e agli Argonauti, di cui scrive Píndaro nel IV sec. a. C. nelle “Odi pítiche”), ecc…: “Chi, il nome, obbrobrioso per i mortali non conosce di Lamia, africana di stirpe?”. E il suo nome, secondo quanto racconta Diodoro, veniva sempre usato come spauracchio per spaventare i bambini.
Il suo nome deriverebbe dall’aggettivo greco làmyros, ingordo insaziabile e, questo, dal sostantivo laimós, gola, indicando, l’uno e l’altro “voracità”, ma anche “lascivia”. Potrebbe anche derivare dal púnico lahan, verbo che signífica “mangiare”.
“La signora con la mosca” (10), terracotta di Efisio Cadoni è una coga nostrana con la coda, la padrona di quell’insetto che rappresenta tutti i diàvoli, pronti ad entrare in ogni casa dove sia nato un bambino per poterne succhiare il sangue, poiché lei è súccuba della gran mosca infernale, Belzebú, il padrone dell’inferno. Il suo stesso nome, dall’ebraico Ba ‘al Zebûb, signífica appunto Signore (Ba ‘al) delle Mosche (Zebûb) ed era il nome di una divinità dei Filistei simboleggiata dal sole, la cui luce attira e scaccia le mosche e tutti gli insetti nocivi e maligni. La mosca troviamo anche nella “coga súrpile” di Masili, di cui si è già scritto; ancora la mosca è nella mano incatenata de “L’inquisita” (42) di Lorenzo Stea, dipinto di una donna di estrema bellezza con gli occhi di fuoco che túrbano chi li guarda, che cerca di sottrarsi alle fiamme che làsciano l’impronta delle foglie nelle sue carni; e le mosche, enormi neri mostri dell’aria, cogliamo nel quadro di Franco Campana, “L’inganno” (39), in cui la strega, l’Ancroia, la donna piú brutta del mondo, appare in tutta la sua òrrida realtà da cui invece ci allontana l’idea di un’antica bellezza, nell’elegante immàgine illusoria del suo volto incorniciato come una fotografía d’altri tempi.
Anche il gatto, che abbiamo già notato ne “La coga” di Mauro Podda, vediamo in “Su pisittu de Santu Sisinni” Il gatto di San Sisinnio (2) di Michele Marrocu, in “Coga niedda” Strega nera (4), la strega trasformata in gatto di Jàcopo Cau, in “Felis acus” Gli spilli del gatto (11) di Gian Luca Sanna e in Ghelló di Liliana Stefanutti. Diventa la figura prevalente il gatto, solo, in uno slancio notturno sui tetti (Cau) o con la strega (Marrocu) o sacrificato e privo di vita, punto dagli spilloni de su malifattu, della fattura che porta alla malattía o alla morte (Sanna), o bianco o nero o con il pelo colorato o rappresentato da occhi emergenti dal buio, sporgenti, vítrei, moltéplici (Stefanutti).
In alcuni racconti della Sardegna, la strega ha il potere di tramutarsi in gatto. Compare anche in qualche fiaba villacidrese, come riferisce G. Bottiglioni (Leggende e tradizioni di Sardegna), in qualche leggenda tramandata oralmente, come quella della “suòcera” che, in forma di gatta, cerca di graffiare il proprio nipotino nella culla, ma viene sorpresa da suo gènero e da lui colpita sul muso, tanto che per la ferita nel labbro la donna-gatta è scoperta e allontanata. Forse Mauro Podda si è ispirato a questo racconto. La sàgoma bianca del gatto di Marrocu si staglia davanti a una strofa inscritta in una banda che si sovrappone a strisce orizzontali di colore, in cui si lèggono alcuni versi “màgici” indirizzati al santo di Leni, Sisinnio. Si tratta di uno dei “brebus” a San Sisinnio, una delle preghiere in rima che D. Mameli trae dalla tradizione orale (Vita, usi e costumi del Sàrrabus”) e che A. Mulas ritrascrive con commento e traduzione (Una sottil virtú diabòlica); ma vi sono diverse mínime varianti. Leggiamo:
Santu Sisinni, sinnai: / sola sola a mi crocai, / sola sola a mi dromiri, / nisciunu a timiri, / ni coga, ni nannai: / Santu Sisinni, sinnai (San Sisinnio, benedítemi: (vado) sola sola a coricarmi, sola sola a dormire, (fate che) nessuno (possa) farmi paúra, né strega, né demonio: San Sisinnio, benedítemi.
Il tema di Lorenzo Stea (l’inquisizione) è anche quello di Antonello Atzori in “Maliarde e indagatori” (35). L’inquisizione è da lui interpretata graficamente e con un elemento ceràmico d’architettura decorativa come per incorniciare ed evidenziare, quale documento, un percorso di stúdi e di finzioni, tra storia e letteratura ( vi si suggerisce un volto di Umberto Eco), misfatti e, insieme, difesa della fede, per un período di cui si parla molto, ma poco si conosce.
L’Ancroia de “L’inganno” di Campana è il títolo del dipinto di Aldo Paderi, “S’Ancroia” (14), figura doppia che appare come giòvane e bella con un ciuffo d’erbe per la sua magía ed è invece una vecchia schifosa con la coda di maiale; ed è anche il títolo dell’òpera di Salvatore Spada, “L’Ancroia allo specchio” (21), único elemento figurativo, in un mondo di segni e léttere e colori, onírico e confuso, che cerca un proprio volto impossíbile nel suo specchio d’oro del desiderio; ed è pure quello ispiratore delle “Cogas” (6) di Marie Claire Taroni, le due signore , l’una sovrapposta all’altra, in una medésima natura, dentro l’uovo d’argento della vita che vien fuori del magma infernale con fiamme e spruzzi làvici; ed è il motivo ispiratore della “Strega” (24), orrípilante immàgine formata dal buio, di Mònica Pili ed è, infine, “La strega di Villacidro” (37) di Dante Gambassi, nel cui dipinto si manifesta la sua ansia descrittiva, la sua volontà di raccontare con píccoli capítoli-scene, il susseguirsi delle mutazioni di una strega volante che è scrofa, cinghialessa, rapace, vegetale, mostruoso èssere totèmico.
L’Ancroia è nata come creatura della Letteratura cinquecentesca e secentesca, nei versi di Francesco Berni, autore del poema burlesco in ottave, La Catrina, e di Perlone Zípoli, pseudònimo di Lorenzo Lippi, pittore e poeta del “Malmantile racquistato”, castello fiorentino semidistrutto, e amico di Salvator Rosa autore del famoso dipinto della strega mostruosa, l’Ancroia appunto, che legge il libro infernale. Il nome Ancroia proviene dall’accostamento delle parole “Mona” e “Incroia” (ossía “mona”, monna, madonna, signora, e “incroia”, che è un aggettivo che deriva dal verbo “incroiare”, indurire, aggrinzare, e signífica “aggrinzita”), Mona Incroia, Signora Incroia. Nella pronuncia prevale la A di Mona sulla I di Incroia che si perde; e nasce cosí mona Ancroia, signora Ancroia; e “ancroia” diviene un nome proprio, Ancroia, per indicare la donna piú grinzosa, piú rugosa, piú vecchia e piú brutta. Anche nella lingua sarda questa strega è rimasta viva; la ritroviamo nell’espressione “leggia che s’Ancroia”, brutta come l’Ancroia; ed è un personaggio ricorrente in alcuni racconti. Andrea Lai ha scovato, nella sua dimora derelitta, nel cui pavimento-tetto di mattonelle e tègole dòmina lo spazio la maga “Mendalza” (9), che dà il títolo al suo dipinto.
Con un cappello da condottiera trionfante solleva la scopa dei suoi voli. O la scopa purificatrice?
Mendalza è il nome di una fata che proviene da un’antica tradizione di Giave, paese del Logudoro, abitatrice di una cavità sotterrànea, all’interno di una “sacra” roccia, nella cui sommità una volta l’anno si mostra, come Eròfile, per i suoi vaticíni. Lei è la “spazzatrice”, la purificatrice, colei che menda, che emenda da ogni vizio, da ogni difetto, da ogni imperfezione.
Il tèrmine genèrico “coga”, che però si riferisce a donne dall’aspetto sereno, leggiamo in Franco Mora, “Beni beníus a Cogaslandia” (7), Benvenuti nella terra delle streghe, dove le streghe sono raffigurate in un gran daffare vicino a una grossa zucca di Halloween d’americana sardità; in Antonio Spada, “Is cogas e sa luna” (27), Le streghe e la luna, dove appàiono stríngersi a cerchio intorno all’àlbero di una Benevento villacidrese; in Rita Fais, “Coga = donna; donna = coga”, in cui la strega è una dolce fanciulla e la dolce fanciulla è una strega (33); oltre che in Sara Rundeddu, “Cogas” (16) dove invece le streghe sono demoníache creature, che s’intrécciano in intricate metamòrfosi, con ramificazioni di antropomòrfiche selve, in un delirio centrípeto, come in un rito infernale; e, come già si è accennato, in Mauro Podda (La coga), Jàcopo Cau (Coga niedda), Marie Claire Taroni (Cogas), Giorgio Masili (Sa coga súrpile) dove, invece, è spaventosa.
Le raffigura vecchie e brutte e spaventose anche Ielmo Cara nel suo “Studio per streghe” (56).
Qui, veramente, come in altre rappresentazioni pittòriche, la coga, perde il suo significato di “donna che costringe al male”, “dominatrice dell’altrui volontà”, dal verbo latino “cogo”; oppure di “donna che cova rancore e mèdita inganni” o “donna che cuoce cibi avvelenati, fa bollire erbe per le sue magíe, dal latino “coquo”, cuocio e anche tormento; oppure dal greco “góes” che è imbroglione, “goetéia” che è stregonería e inganno, “goào” che è “urlo” e “mi lamento” e ancora dalle voci “coi, goi, goi” che ripètono il verso del maiale. Sono simpàtiche, perché ci sémbrano buone.
Ci sembra ugualmente buona, perché ci ricorda la “Befana” dei nostri desidèri infantili, quella che ci offre il pennello di Salvatore Caramagno con “La strega e il nuraghe” (8), per quanto essa sia vecchia e rugosa. Ma, in fondo, chi non ha immaginato una strega volante a cavallo di una scopa, come una Befana? Ecco, la strega è anche una Befana. O la Befana è una strega buona che porta i doni ai buoni. Ed è una strega buona e dolce la bella “Incantarice” (26) di Francesco Argiolu dallo sguardo che innamora, ma con sentimento, senza ingannévoli seduzioni; ed è addirittura una “Musa” (29) la strega dell’ “Anònimo” villacidrese, pervaso di romàntica atmosfera, colei che tutte le “muse” rappresenta, l’ispiratrice, l’energía d’ogni artéfice di poesía. Ed è una strega buona e doméstica quella effigiata con la scultura di ferro e cartapesta da Luigi Pillitu, coloratíssima, con un grande cappello da Befana, “La strega de su Loi” (30), colei che accompagnava il buon uomo contadino, il sémplice, nelle sue quotidiane fatiche, come una benèfica guida. Ed è buona, serena, la strega di Dina Pala, Nanussa, che ha dato il nome al suo dipinto, “Nanussa” (40); è serena, anche se rassegnata, come la strega del racconto, a vívere una sua doppia vita, da giòvane, cosí come è rappresentata, in un suo destino che la rende vecchia anzitempo per un incantésimo che però, in forza dell’amore, finirà per sempre.
È ugualmente buona e dolce “La strega Catalía” (36) di Elia Calamassi che sta per nascòndersi sul dorso di una coccinella per sfuggire al rogo delle streghe, rappresentato nel dipinto come un ricordo o come un sogno. Catalía è una coga della tradizione villacidrese, una donna che riesce a riscattarsi, dopo tanto male, lavorando e facendo magíe positive, come quella rappresentata in una delle scene in cui il vinaio nella sua cantina trova l’oro nelle botti.
Ed è cosí ugualmente dolce “Felicina” (41), la strega di Carmen Crisafulli, anche se viene considerata un’assassina senza cuore e vive separata dal mondo ed è pittoricamente rappresentata con tutti gli ingrediendi tradizionali della strega. Ma ha un volto velato di tristezza, con gli occhi di pianto. Forse la chiàmano Felicina proprio perché, sempre sola, proprio felice non è. Ed è cosí, anche lei dolce nella sua solitúdine, la coga “Tzia Annetta Fiuferru” (47) scultura marmòrea di Antonello Pilittu, la bambinaia che tiene tra le mani un bimbo che non è suo figlio e lo stringe a sé, all’altezza del suo grembo, come fosse suo figlio, forse per dimostrare a tutti che non ha mai ucciso un bambino, che non potrà mai uccídere nessun bambino, nonostante le cattive voci del paese l’accúsino ininterrottamente. E dolce e tranquilla è la vecchia di Nando Marrocu, “Tzia Gena”(49), col suo canestro di frutta, anche se tutte le donne e gli uòmini del suo “vicinato” la chiàmano strega.
Sono pieni di messaggi, suggerimenti recònditi: l’òpera di T. Méghistos, nome che troppo ci ricorda il Trismegisto inventore dell’alchimia, autore di “Alchimia” (55), una scenografía in iscàtola, una scultura teàtrica, con símboli che fanno pensare a un paradiso perduto: un àlbero-donna con volto di foglia al centro, in uno spazio chiuso come una prigione, e due mezze mele ai lati, il pomo diviso dal peccato, e altri segni misteriosi ed oscuri; il dipinto di Claudio Giordano, “Rito” (54) con il demonío – caprone, la danza delle streghe alate nel sabba sacrificale intorno al fuoco; “Il tempo dell’occulto” (44) di Matteo Discépolo, con la scena madre che s’apre su alcune streghe, una delle quali legge nei tarocchi la carta dell’“impiccato” e, da una delle due finestre, ai lati superiori del dipinto, dove si scorge un’eminenza ecclesiàstica, un’altra strega regge una cordicella cui è legato, pencolante, un fantoccio; il quadro “Indistinte presenze” (32) di Salvatore Filía, una rappresentazione informale, espressa in quattro bande di colori giustapposte, distinte nei quattro settori da línee di separazione, nella magía del número con tutti i suoi significati che si fòndono nella nebbia di un’íntima percezione: come illusorie presenze? Rientra in quest’àmbito anche l’òpera di Nino Cannella, “Figurazione su tema di luna” in cui nel bianco assoluto della luce campeggia una figura mulíebre che fa la sua luna, la sospinge col capo e ne riceve tutto quanto c’è d’immaginàbile respiràndovi tutta quella màgica poesía che può render possíbile anche l’impossíbile, anche l’inimmaginàbile. La presenza della “luna”, ma con altri intenti d’artista, quale elemento proprio di una notte delle streghe, abbiamo già osservato ne “Is cogas e sa luna” di Antonio Spada. E vi s’inserisce anche il dipinto di María Caboni dal títolo “Il fuoco stregato”, attraverso una visione astratta in cui una luminosità rossa di fiamma si perde in uno spazio nero che sfuma nel grigio, come per suggerire il trionfo del pensiero líbero della magía contro le sentenze ingiustificate del pregiudizio ingannévole. Giuseppe Bosich, con il suo “Traigogju” 25), rappresenta una processione d’ànime che sono un’única catena di corpi trascinàntisi sotto il peso delle proprie colpe, come per una condanna, una pena per espiazione; “Un filo che si può spezzare” (23) di Roberto Floris è un dipinto su plexiglas in cui l’artista esprime, con tècniche che gènerano trasparenze e sovrapposizioni, la vanità dell’esistenza, soprattutto quando si gonfia d’ogni superbia, destinata ad esser interrotta repentinamente, da una qualche comuníssima magía della vita: In alcuni artisti sembra che, nell’esprímere il loro senso della magía, sia importante anche il número, in particolare il tre. Francesca Bosic presenta il suo tríttico “Mysticae” (22), in cui l’ironía si percepisce dagli sguardi rivolti al cielo della sua strega, colta in tre momenti diversi (o sono tre streghe in una?), che sembra mostrare un aspetto ora contrito, ora estasiato, ora assorto, con qualche punta dissacrante; e Alberto Scalas, con il suo “L’àlbero delle Moire”, raffigura “sa filonzana”, la filatrice, colei che prepara il tessuto della vita e colei che rompe il filo, come è scritto nella tela. Le tre Moire (Cloto, Làchesi, Àtropo) di cui scrive il poeta greco Esíodo (VIII sec. a. C.) nella “Teogonía”, le vecchie cui è legato il destino dell’uomo, in un’antica pittura vascolare (il matrimonio di Teti) sono quattro e due eran venerate nel tempio di Delfi; per Omero c’era una sola moira da cui dipendeva la vita. “Moira” signífica “parte” e l’omèrica “filonzana” rappresenta, con le tre vecchie e con le tre dita allungate da ogni maga dell’esistenza, in realtà, un tutto: un tutto vale una sola parte e la parte un tutto. Effetto di magía. E, infine, la tríplice scultura di Pinuccio Sciola, “I tre semi della magía” (46) è òpera in cui la concretezza delle píccole pietre s’identífica con l’effusione di un umano messaggio spirituale nella fondamentale triplicità dell’arcana orígine della vita: una scultura dove l’idea s’informa.
Is cogus, gli stregoni, hanno ispirato soltanto tre artisti. Francesco Casale, nel suo quadro “Cogu” (13) ad altorilievo di terra cruda impastata con colla e con colori e catrame, s’è scherzosamente ispirato al nostro amico Peppe Manías, vulcànico inventore e organizzatore di mille eventi culturali: una sorta di mysticus frater, ritratto con una nera barba da patriarca senza età, un santone, un guru, un maestro della buona magía. E l’artista, attraverso l’illuminazione delle caratterístiche del suo volto che vengon fuori del buio, con l’immàgine traduce alla léttera gu (buio) ruh (luce): colui che guida alla luce. Tommaso Andrea Cadoni, nella sua òpera “Veneficus citra”, Il mago di qua, che sta da questa parte, vicino a noi, lo stregone che àbita dalle nostre parti, presenta una figura sovrumana, come una divinità, ma inferiormente schiacciata e con un particolare bestiale, in un’atmosfera misteriosa in cui sembra èrgersi con tutto il gigantesco peso del corpo che s’appoggia sul ginocchio della gamba destra in primo piano, piegata, e sull’altra che tèrmina con una zampa caprina. In una sua mano che s’allunga in alto e sfuma si materializza una forma umana. Il suo “veneficus” s’ispira all’alchimista S’Acunna, il gran seduttore, il mago dei racconti villacidresi. Susanna Floris, con una cascata di gràppoli d’uva e succhi vinosi e uno scintillar di càlici e vasi e coppe, presenta il “Magicum magi magarum” (57), che è anche il títolo del dipinto, Il màgico boccale del mago dove un volto a noi noto s’intravede, stupito, oltre il vetro che non ha segreti. Neppure per un mago.
Sono tanti invece gli artisti che si sono ispirati alle streghe del mondo greco e latino, le coghe, le empuse (en posí, vicino, dappresso, coloro che ti stanno sempre tra i piedi come ombre), che venívano scambiate con le lamie ed eran figlie della regina del Tàrtaro, Ecate, e apparívano come spettri notturni che spaventàvano i viandanti e talvolta èrano rappresentate con le nàtiche d’àsino o come cagne o come vacche; e poi le sibille (siós-theós, dio e boulé, volontà, coloro che conóscono la volontà del dio) che èrano tante e avévano la facoltà di predire il futuro, vivendo presso le fonti o dentro le spelonche; le pitie o pizie anch’esse profetesse e sacerdotesse del tempio d’Apollo, il tempio di Delfi chiamato anche Pito, da cui il loro nome; ed eran chiamate anche pitonesse, derivando il nome dal mítico serpente Pitone, il mostro che prevedeva ogni accadimento e si nutriva di uòmini e di animali; pitonessa era anche detta la bíblica strega di Endor del Libro di Samuele, la negromante, interrogata imprudentemente da Saul sulla sorte della guerra di Israele contro i Filistei, identificata dai rabbini come Zefania, madre di Abner, cugino di Saul e comandante del suo esèrcito.
“Calvinia obscura” (12) è il títolo del disegno di Desirée Spadafora. Si chiama Calvinia la strega erètica che s’ammaestra con le letture del pensiero calviniano sulla predestinazione dell’uomo. Il suo volto è inquietante, chiuso; ed è diffícile da scrutare, maligna in preghiera, la sua interiorità che l’artista esprime nello sguardo di lei e nel gesto della sua mano che stringe il rosario, con dura ironía. Enzo Silvestri ha foggiato la sua “Eròfile” (17) di terracotta e l’ha fatta d’oro, nuda, con una màschera mostruosa, abbondante di mammelle, con braccia filiformi e lunghíssime gambe: un ídolo. Di lei Eròfile o Erofile, soprannominata Pitia o Sibilla eritrea, scrive Pausania il Periegeta della Lidia ( II sec. d. C.) nel suo “Viaggio in Grecia (X Libro, Cap. XII, 1 e 2). Il nome dell’indovina che fu vista in cima ad una roccia, a Delfi, e fu udita mentre diceva i suoi responsi, signífica “colei che ama l’amore”. Ma il suo è un amore ingannévole, poiché è l’amore di una strega e lei, figlia di Lamia e di Zeus, ama solo sé stessa. María Cristina Crespo è l’autrice dell’òpera “Santu Sisinni e Pelagia cassada a retza”. San Sisinnio e Pelagia presa con la rete. È una píccola cassa sacra, un’edícola scultoria polimatèrica, un tempietto in cui San Sisinnio lancia la rete che imprigiona la strega delle profondità marine, rappresentata come una fanciulla con la coda di sirena, perciò come una donna capace di allettare, di sedurre anche il piú puro dei santi. San Sisinnio è un santo che, secondo la tradizione, nacque a Leni, a due passi da Villacidro, quando il paese non era ancora sorto, il 123 e morí il 185 ucciso dai Romani dell’impero di Còmmodo a colpi di bastone. È sempre stato venerato come santo protettore dell’innocenza, della purezza, dei bambini e ricordato per la sua voce e per le sue parole con cui tutti convertiva al Cristianésimo ed è sempre stato invocato come protettore da ogni maleficio, nemico delle streghe. San Sisinnio ritorna nel títolo del dipinto di Michele Marrocu (Su pisittu de Santu Sisinni); e nel quadro di Elia Calamassi (La strega Catalía) è raffigurata la sua chiesa campestre. Di Pelagia scrive Leone Allacci che la nòmina insieme con le altre streghe della fantasía medievale i cui nomi, secondo l’erudito secentesco, avrèbbero potere apotropaico. E, con Pelagia (pélagos, mare), regina delle profondità delle acque, dei laghi, del mare, nòmina le altre streghe: Gylo (ghélos, riso, scherno) colei che è un vero ludibrio, Byzo (abýzon, cosa senza fondo) donna dell’abisso, Màrmaro (màrmaros, pietra, marmàiro, scintillo) colei che petrífica con lo sguardo con cui manda scintille, Petasia (pétasos, grande cappello a large falde, pétomai, volo) donna che si presenta con un gran cappello o colei che vola, Bordona (bordón, mulo) la donna-mula, Àpleto (àpletos, enorme, immenso) colei che non ha límiti, Chomodracaena (chóma, sepolcro e dràcaina, draga) la dragonessa delle tombe, Anabardalea (anabrýo, scaturisco –anabràzo, getto fuori con gorgogli e daléomai, danneggio) colei che prorompe per danneggiare, Psychoanaspastria (psýche, ànima e anaspàso, distruggo, rapisco, succhio), l’ombra succhiatrice, che rapisce, distrugge, Paedopniktria (pàidon, dei fanciulli, pníkter, strangolatore) soffocatrice di bambini, Strigla (strigga, uccello notturno) strige e Morrah, la sciagura di cui si scriverà piú avanti.
“Pànfile” (43) è il títolo del dipinto di Alberto Dal Cerro in cui, da un corvo sfinito per il lungo volo, con le zampe in su, vien fuori la strega in una vampa di fuoco. Pànfile o Panfila (Pamphíle da pàmphilos, l’amico di tutti) è la strega di cui scrive il filòsofo–mago africano Apuleio (II sec. d:C.) nelle sue “Metamòrfosi”. Abitava in una soffitta dove èrano sparsi dappertutto pezzi di cadàveri, fiale di sangue, erbe e unguenti e tanti altri oggetti e usando un suo particolare preparato si trasformava in gufo o in altri uccelli e bestie diverse. Lei è descritta mentre si denuda davanti a Lucio, il protagonista del libro conosciuto anche come “L’àsino d’oro”, e si trasforma in gufo: “… sul corpo spunta una molle peluria, crèscono delle robuste penne, il naso s’incurva e s’indurisce, le unghie s’ispessíscono e si fanno adunche…”. “Ghelló” (ghelào, rido) (45) è la strega che dà il nome all’òpera di Liliana Stefanutti, pittrice di cui si è già scritto per i suoi occhi di gatto che appaiono concretamente nel buio della tela. Essa è lí rappresentata con due occhi posticci con le ciglia, come gli occhi che si toglieva e rimetteva la Lamia, come dominatrice del mondo. Leone Allacci scrive che San Sisinnio e San Sisinodoro riuscírono a fermare Ghelló o Gello o Gillo o Geló o Gelo, impedèndole di fare del male. Ghelló è anche uno dei molti spettri-spauracchi inventati nell’antica Grecia per spaventare i bambini capricciosi. Gello è la rapitrice. E con lei, tra le altre streghe, si ricòrdano Eurinome (eurý, ampio e nómos, campo, regione) abitatrice dei grandi spàzi, delle profondità della terra, che inghiottiva i cadàveri, Alipto, (alís, mare e ptoiéo, spavento, sconvolgo), colei che porta la tempesta e Acco o Accó (akkízo, faccio smorfie, spavento, fingo) la falsa. In un frammento di Saffo, la poetessa di Lesbo (VII-VI sec. a. C.), il nome di Ghelló (ghelló, ghéllos) è usato al genitivo (ghelloús) insieme con paidophilotera: … amante dei bambini (piú) di Ghelló: quelli che la strega rapiva.
Pàola Pinna presenta una sua scultura intitolata “Il volo di Fòtide”. Fòtide o Fotida (Photídas, phòs, luce, photízo, risplendo) è la strega, serva di Pànfile che, nel “romanzo” di Apuleio “L’àsino d’oro”, è anche l’amante di Licio, il protagonista che, spinto dal desiderio di volare dopo aver visto la mutazione della strega padrona, chiede alla sua innamorata di preparargli un unguento capace di trasformarlo in un uccello. Per un errore di Fòtide Lucio diverrà un àsino. Alla storia di Lucio-àsino s’intreccia quella di Amore e Psiche, che una vecchia chiusa in una grotta racconta all’àsino; ed è certamente la parte piú bella. La storia si conclude con la decisione dell’último proprietario, padrone dell’àsino di cui si innamora sua moglie, di punirli ordinando un loro púbblico accoppiamento. Per la vergogna l’àsino prega la dea Íside e ottiene da lei di poter riprèndere le sembianze umane e cosí avviene. L’òpera di búcchero, che è la terra che diviene nera e lúcida come un manufatto etrusco, in cottura, rappresenta una figura femminile, armonicamente callipigia, che si slunga con il corpo come piegàndosi ad ala nel suo slancio al volo.
Lello Porru ritrae “Karkó” (kàrkaros, dai denti appuntiti) (51) in un quadro che ha il medésimo nome. La strega vien fuori di un tessuto di segni, di intarsi, d’inchiostri, di filigrane in cui appare un volto, gli occhi d’un azzurro spento, una figura umana con chiazze rosse, come velata. Karkó è una strega, ma è soprattutto una divinità femminile, cosí come èrano considerate la Lamia, Mormó (mormó, cosa spaventévole, esclamazione di spavento: mammamia!, ahi, ahi!), Gorgó (Gorgone, mostro con la testa anguicrinita che petrificava con lo sguardo; ce n’èrano tre: Steno, Euríale e Medusa), Makkó (donna stúpida, makkoào, sono scemo), Bombó (donna che fa rumore, che borbotta, che muggisce come un bue, che ronza come una zanzara o come un calabrone, bómbos, rumore, ronzío, muggito…) e Lamó o Lamo (donna ingorda, làmos, ingluvie, gozzo degli uccelli, gola), sempre attratte dal sangue dei bambini di cui si nutrívano.
Se ne parla negli scolia a Teòcrito, poeta siracusano (III sec. a. C.), e in Aristòfane, autore di famose commedie come Núvole, Vespe, Lisístrata, Rane (V sec. a. C.) in cui sono indicate, molto spesso, con simulata gravità, alla stessa maniera celatamente sorniona con la quale noi ci riferiamo agli spettri nostrani Momò, Momoi, Momoti, Marragotti, Nannai ecc…, come terríbili spauracchi. Talvolta la vena del commediògrafo giungeva persino a rènderne ridícola l’immàgine. Cosí in Aristòfane, cosí in Cratete (V sc. a. C.) noto per la commedia “Le bestie”, che scrívono dell’orríbile Lamia che era maschio e fèmmina; e Cratete presenta “Lamio” che, “pòvero vecchio … col bastone, scorreggiò”; e Aristòfane : “Quando Lamia fu presa si mise a scorreggiare”. La strega, diventata ermafrodita, era chiamata sarcasticamente Lamia pedens, petarda, petante, scorreggiatrice.
“Morrah” (móros, sciagura, morte, distruzione, cadàvere) (52) è uno dei nomi apotropaici rivelàtici da Leone Allacci come s’è già registrato; ed è il títolo dell’òpera di Sergio Putzu che rappresenta una figura di donna dalla pelle nera dipinta in un pannello che sembra uscire da una capanna artigiana del cuore dell’Àfrica, con canne e altri elementi naturali adoperati come fregi, ornamenti sacrali e artificio coreogràfico ritenuto necessario dall’artista, per incorniciare l’immàgine opportunamente e custodirla in un suo tabernacolo, perché sia reo efficace il suo potere apotropaico. Lei è Morrhah, la Sciagura, colei che porta e che allontana la sciagura, la cattiva sorte. È raffigurata in una sua contenuta tristezza, una rassegnata infelicità.
Efisia Mocci presenta la sua strega Mormó nel dipinto “Gli occhi di Mormó” (53) in cui sono raffigurati solo due occhi penetranti che òccupano quasi totalmente lo spazio del foglio. Sono gli occhi di Mormó che è una strega ed è uno spírito che morde i bambini, come scrive Strabone, stòrico e geògrafo del I sècolo a. C.. Aristòfane la descrive ora come una vecchia, ora come una giòvane che si diverte a far spaventare le persone mettendo tutto a soqquadro o provocando rumori improvvisi. Ne scrive anche Apollodoro di Atene, scrittore del II sec. a. C., nel suo libro “Intorno agli dei”, chiamàndola Mormolice (Mórmo e lúkes, lupo), orríbile donna-lupa, e presentàndola come figlia di Acheronte, mítica personificazione del fiume dell’Ade.
Villacidro, nel Caffè Letterario della Casa Cogotti, Sanluri nel Castello trecentesco del Conte VIllasanta, Villanovafranca nel Museo comunale…
Villacidro, 11. I . 2013
E.C.
O.D.A. - ARTE E AMBIENTE
Efisio Cadoni
Luciano Porcedda
CAVETE COGAS 2012 / 2013
Villacidro, 22 XII 2012
Artisti e Opere:
1)
Gisella Mura "Il tempo di Lilit"
2)
Michele Marrocu "Su pisittu de Santu Sisinni"
3)
Mauro Podda "La coga"
4)
Jàcopo Cau "Coga niedda"
5)
Màssimo Spiga "Lamia"
6)
Marie Claire Taroni "Cogas"
7)
Franco Mora "Beni beníus a Cogaslandia"
8)
Salvatore Caramagno "La strega e il nuraghe"
9)
Andrea Lai "Mendalza"
10)
Efisio Cadoni "La signora con la mosca"
11)
Gianluca Sanna "Felis acus"
12)
Desirée Spadafora "Calvinia obscura"
13)
Francesco Casale
"Coga"
14)
Aldo Paderi "S’Ancroia"
15)
Federico Coni
"Sa coga súrbile"
16)
Sara Rundeddu "Cogas"
17)
Enzo Silvestri "Erofile"
18)
M. Cristina Crespo "Pelagia e San Sisinnio"
19)
Nino Cannella "Figurazione su tema di luna"
20)
Tommaso A. Cadoni "Veneficus citra"
21)
Salvatore Spada "L’Ancroia allo specchio"
22)
Francesca Bosic
"Mysticae"
23)
Roberto Floris "Un filo che si può spezzare"
24)
Mònica Pili "Strega"
25)
Giuseppe Bosich "Traigogju"
26)
Francesco Argiolu
"Incantatrice"
27)
Antonio Spada
"Is cogas e sa luna"
28)
Alberto Scalas
"Sa filonzana"
29) Anònimo "Musa"
30)
Luigi Pillitu "La strega de “su Loi”
31)
Giorgio Masili "Sa coga súrpile"
32)
Salvatore Filía "Indistinte presenze"
33)
Rita Fais "Coga = donna; donna = coga"
34)
María Franca Tronci
"Nella notte nera, dai rúderi sentírono civette e cogas"
35)
Antonello Atzori "Maliarde e indagatori"
36)
Elia Calamassi "La strega Catalía"
37)
Dante Gambassi "La strega di Villacidro"
38)
Graziella Piredda
"Lilith"
39)
Franco Campana
"L’inganno"
40)
Dina Pala "Nanussa"
41)
Carmen Crisafulli "La maga Felicina"
42)
Lorenzo Stea "L’inquisita"
43)
Alberto Dal Cerro "Pànfile"
44)
Matteo Discépolo "Il tempo dell’occulto"
45)
Liliana Stefanutti
"Ghelló"
46)
Pinuccio Sciola
"I tre semi della magía"
47)
Antonello Pilittu
"Tzia Annetta Fiuferru"
48)
Pàola Pinna
"Il volo di Fòtide"
49)
Nando Marrocu "Tzia Gena"
50)
María Caboni
51)
Lello Porru "Karkò"
52)
Sergio Putzu "Morrha"
53)
Efisia Mocci
“Gli occhi di Mormó”
54)
Claudio Giordano
"Rito"
55)
T. Méghistos "Alchimia"
56)
Ielmo Cara "Studio per streghe"
57)
Susanna Floris "Magicum magi magarum"
Località
e date:
Villacidro
22 XII 2012 / 30 XII 2012
Sanluri 5 I 2013 / 13 I 2013
Villanovafranca 19 I 2013/ 27 I 2013
San Sperate 2 II 2013 / 10 II 2013
Portoscuso
16 II 2013 / 24 II 2013
Càgliari
2 III 2013 / 10 III 2013
Ales
16 III 2013 / 24 III 2013
Làconi 30 III 2013 / 7 IV 2013
Oristano
13 IV 2013 / 21 IV 2013
Santu Lussurgiu 27 IV 2013 / 5 V 2013
Ghilarza
11 V 2013 / 19 V 2013
Ulàssai 25 V 2013 / 2 VI 2013
Orgòsolo
8 VI 2013 / 16 VI 2013
Núoro 22 VI 2013 / 30 VI 2013
Dorgali 6 VII 2013 / 14 VII 2013
Ozieri 20 VII 2013 / 28 VII 2013
Alghero 3 VIII 2013 / 11 VIII 2013
Tempio Pausania 17 VIII 2013 / 25 VIII 2013
Padru 31 VIII 2013 / 8 IX 2013
Olbia 14 IX 2013 / 22 IX 2013
Arzachena
28 IX 2013 / 6 X 2013
Santa Teresa di Gallura 12 X 2013 / 20 X 2013
Castelsardo 26 X 2013 / 3 XI 2013
Porto Torres 9 XI 2013 / 17 XI 2013
Sàssari 23 XI 2013 / 1° XII 2013
Villacidro
7 XII 2013 / 15 XII 2013
Villacidro
21 XII 2013 /31 XII 2013
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